giovedì 17 febbraio 2011

Kynodontas


Di Giorgos Lanthimos, 2009 (Grecia)
Con Christos Stergioglou, Michele Valley, Aggeliki Papoulia, Mary Tisoni, Hristos Passalis
Scritto da Giorgos Lanthimos, Efthymis Filippou
Montaggio di Yorgos Mavropsaridis
Fotografia di Thimios Bakatakis
Durata: 94 min.

Un nucleo familiare isolato dal mondo. Tre figli costretti da un'educazione assolutista a non uscire dal recinto della proprietà privata. Il padre è l'unico che ha una vita anche al di fuori della casa, ma il suo unico interesse sembra essere quello di “proteggere” ad ogni costo la propria famiglia dalle influenze esterne.
(Una popolazione costretta da una società assolutista a non uscire dalle convenzioni imposte da chi governa, e solo chi governa può permettersi di uscire dai canoni senza subirne le conseguenze. La principale preoccupazione di chi sta in alto è ovviamente quella di tenere a bada chi sta in basso, mantenendo ben salde le gerarchie).
Attraverso un'educazione preparata a dovere la cui verità non può essere provata, un telefono diventa una saliera, e gli aerei che si scorgono dalla casa si trasformano occasionalmente in giocattoli “precipitati” in giardino. I tre figli credono a quello che viene loro detto senza mai potersi permettere di discutere o dubitare. Ed è proprio dall'educazione che ha inizio l'apprendimento condizionato di quei valori che regoleranno poi la vita adulta, a cominciare dal rispetto delle gerarchie. Se cresciuto in un certo modo, ogni soggetto si ritroverà ad accettare come verità inconfutabili le nozioni e le conoscenze che gli verranno “somministrate”,
Poi c'è la violenza, presente nella casa e punita, certo, ma a causarla non è forse lo stesso sistema che la reprime?
Il padre-Stato assicura inoltre a più riprese ai propri figli-sudditi la protezione da ogni minaccia esterna. Una sorta di scambio senza via di fuga: voi mi obbedite, e io vi proteggo dalle minacce che, vi assicuro, esistono. Ma esistono davvero?
Finché esisteranno i muri e le barriere sarà sempre facile sostenere la loro utilità, è solo demolendoli che la si può mettere in discussione.
Nella rappresentazione in miniatura della società vista da Lanthimos c'è spazio pure per la competizione, altro aspetto fondamentale che fa sì che ogni essere umano entri in conflitto con i propri simili per poi raggiungere quella stabilità economica che gli permetterà di assicurarsi i beni di consumo (essenziali e non). Dei tre figli, sarà quello più veloce a vincere e a potersi permettere di scegliere la distrazione di turno. Ma è tutto fittizio: i divertimenti e le forme di svago sono distribuiti a seconda dei voleri del padre, già preconfezionati, una specie di appuntamento fisso che dia l'illusione di libertà e di fuga dall'ordinario. Esattamente come le proteste di oggi: hanno uno spazio dedicato e ben delimitato in cui la gente può scendere in piazza e sfogarsi senza produrre alcun risultato. Un'illusione. L'indomani però torna tutto come prima.
Ma sarà la ripetitività, aggiunta alla variabile dell'elemento esterno che aveva il compito di soddisfare le pulsioni sessuali del fratello maggiore, a provocare l'inevitabile ribellione finale.
Dando per certo che l'affermazione individuale potrà avere inizio solo nel momento in cui perderà i canini, la sorella più grande realizza di trovarsi davanti a una scelta. E se il prezzo della libertà (che non può essere "insegnata", ma solo negata) viene fissato in questo modo, tanto vale rischiare, sola, davanti a uno specchio.
Sono forse andato un po' oltre, ma è quello a cui ho pensato guardando questo film. Diretto e recitato con cura, essenziale, freddo, eppure enormemente espressivo. A me sa tanto di atto d'accusa. Forse sbaglio, ma tant'è.

lunedì 14 febbraio 2011

mercoledì 2 febbraio 2011

La donna che canta


Incendies
Di Denis Villeneuve, 2010 (Canada)
Con Lubna Azabal, Mélissa Désormeaux-Poulin, Maxim Gaudette, Rémy Girard
Scritto da Denis Villeneuve, Valérie Beaugrand-Champagne, tratto dalla pièce teatrale di Wajdi Mouawad
Montaggio di Monique Dartonne
Fotografia di André Turpin
Musiche di Grégoire Hetzel
Durata: 130 min.

Devo ammettere che dopo due minuti ero già stato “corrotto”. Iniziare a sorpresa il film con una lunga e stupenda scena al ralenti e You and whose army? dei Radiohead in crescendo stava già per farmi gridare al capolavoro. Poi mi sono calmato, ed è iniziata la storia: in Canada, dopo la morte di Nawal Marwan, ai suoi due figli viene consegnata una lettera ciascuno. Jeanne deve recapitarla al padre che credevano morto, mentre Simon a un fratello di cui non sospettavano nemmeno l'esistenza. Per farlo dovranno recarsi in Medio Oriente, dove scopriranno non senza qualche difficoltà il terribile passato della madre.
Villeneuve si concentra soprattutto sulle vicende di Jeanne, sovente alternate a dei flashbacks della vita di Nawal e delle circostanze che hanno portato alla nascita dei due gemelli e del terzo figlio, mentre Simon raggiunge la sorella in Medio Oriente soltanto nella parte finale.
È un film potente che a tratti raggiunge una qualità narrativa quasi perfetta, con una regia solida che alterna momenti più lenti e contenuti ad altri davvero sublimi (basterebbe anche solo la scena iniziale, ma ce ne sono altri). È un film sulla stupidità e l'atrocità di una guerra che lascia tracce anche nelle vite di chi non l'ha mai vissuta in prima persona, ma anche sulla famiglia e sul perdono, e che spinge lo spettatore a sospendere i giudizi affrettati e ad immedesimarsi nei protagonisti senza cercare a tutti i costi una morale. “Chi siamo noi per giudicare?”, sembra suggerire Villeneuve.
Candidato agli Oscar come miglior film straniero, qui purtroppo è stato vittima di una distribuzione ridicola. Peccato, perché è davvero eccezionale.
Unica pecca il pessimo doppiaggio, ma qui Villeneuve e soci non c'entrano nulla. Quando inizieranno a distribuire film in lingua originale anche da noi sarà un bel passo avanti.